venerdì 3 dicembre 2010

Moïse et Pharaon: Muti all’Opera… di Roma


Ospitiamo una recensione dalla penna di Elvira Diamantini

Quando ho saputo che Riccardo Muti veniva a Roma ho fatto di tutto per trovare i biglietti e portare mio nipote all’Opera. Il mio è stato un pensiero scaramantico: “anche se dovesse chiudere, almeno mio nipote avrà visto un’opera in Italia ”. Il ragazzo, non senza qualche incertezza sul vestito da indossare (gli proibisco categoricamente i jeans calati e le mutande in vista), accetta l’invito e sapendo delle quattro ore e mezzo di spettacolo che l’attendono sopporta gli sfottò degli amici in vista di giocarsi l’argomento con la tipetta del DAMS che lo emoziona tanto.

Moïse et Pharaon di Rossini è un’opera monolitica, monoteista, monogenere, fatta a forma di piramide egizia: i figli in conflitto, i padri avversari, gli dei in terribile lotta. La storia è nota, la musica un po’ meno, se non fosse per il grande coro finale.
Muti reagisce al peso della narrazione dando spessore e levità a tutta l’opera. Orbita le mani misteriose e potenti, solleva mistico il golfo dell’orchestra e sospesa la massa corale li unisce nel punto perfetto d’un istante e tutti giù a scapicollo compresa la platea, i palchi e il loggione, che quasi per magia si ritrovano intatti a fine frase a passeggiar in su e in giù per le dolci colline d’un Rossini che non tradisce leggerezza e velocità neanche nella narrazione dell’epopea biblica. Un cast d’eccezione con la splendida Sonia Ganassi nei panni di Sinaïde,  l’autorevole e limpido Ildar Abdrazakov in quelli di Moïse e Juan Francisco Gatell inconfodibile timbro di Élièzer.
La solennità del tema è garantita dalla corposa presenza del coro, quasi irriconoscibile nell’elegante performance donata alla capitale (s’intuisce il merito del M° Gabbiani), che ora dà voce al popolo egizio ed ora a quello ebraico con puntale cambio d’intenzione.  Un bis meritatissimo quanto l’ovazione seguita.
Un encomio al versatile corpo di ballo dell’Opera di Roma, che attraverso l’interpretazione di Shen Wei ha reso più attuale il racconto ed in particolare a Fang-Yi Sheu il cui corpo emana soavità e coraggio, forse l’unica vera essenza femminile dell’intero spettacolo.
Muti per tutto il tempo è presenza certa per i cantanti sul palco, gli orchestrali in buca, i ballerini impegnati in coreografie e perfino i figuranti in azione
Il Maestro non dirige, semplicemente tutto inizia a ruotargli intorno.

Però quando mio nipote mi grida , salto sulla sedia incredula io stessa, riuscendo a zittirlo per poco con un sommesso , fin quando non trattiene un altro , allora rinuncio alla difesa e vedo che purtroppo oltre ad una direzione c’è pure una regia.
La questione è l’annoso problema degli uomini: essere Mosè o il Faraone? Il punto è se nel condurre un popolo, una musica, uno spettacolo si debba mostrare i muscoli o convincere con la propria presenza. L’ostentazione di tecnologie video, un misto tra “i dieci comandamenti” e “guerre stellari”, utilizzate ora in senso didascalico, ora ornamentale rende l’opera piatta, immobile, a tratti ridicola - in questo senso i costumi non aiutano – un mettere in mostra i muscoli che, una donna lo sa, rende l’uomo più fragile.

A fine spettacolo mio nipote si è convinto non è del Dio del più forte, né tantomeno dei suoi effetti speciali che parlerà alla sua bella, ma di quell’incantevole muover di mani che nulla afferrano e tutto muovono.

E.D.