Prima parte: turista a
Bilbao Fino agli anni '80 Bilbao era un'oscura città
industriale, annerita dagli altiforni della metallurgia pesante e al
di fuori di ogni itinerario turistico o culturale europeo.
Una città rigidamente
divisa in due dal fiume Nervion, che era stato il motivo stesso della
sua esistenza, e che segnava anche il rigido confine di classe tra
due mondi socialmente ed economicamente distanti: la classe operaia
del ferro e la borghesia industriale.
Due mondi comunque
tenuti in equilibrio dal forte collante del lavoro e dell'impresa,
fonte di sopravvivenza o di enorme ricchezza e benessere, a seconda
della riva del fiume sulla quale avevi avuto la ventura di venire al
mondo.
A metà degli anni '80
una serie di fattori di crisi congiunti (il petrolio, l'entrata in
Europa estremamente penalizzante per quel comparto produtivo) provoca
un collasso irreversibile del tessuto sociale e, nel giro di pochi
anni riduce la città ad un fantsama.
I conflitti si fanno
esasperati, la disoccupazione raggiunge livelli insostenibili, la
zona del porto sulle rive del fiume, con le sue grandi manifatture e
i suoi magazzini, si svuota e diventa una tetra ombra di ciò che
era.
La conseguenza tra le
altre, più preoccupante, è un calo demogrfico nel decennio
1981-1991 di ben il 14%.
Nel 1986 chiudono i
cantieri navali Euskalduna fondati nel 1900 e dopo dieci anni gli
Altos Hornos de Vizcaja.
Il ferro del Golfo di
Biscaglia, premiato alla esposizione universale di Prigi del 1855 non
serve più: è la fine di un epoca.
Seconda parte: uno
spostamento di prospettiva E' a quel punto che le istituzioni
Basche si rivolgono alla Fondazione Guggenheim con l'idea (quale
politico locale è stato così geniale?) di creare un consorzio per
fondare un museo di arte contemporanea. Il direttore della Fondazione
Thomas Krens, reduce dal fallimento di un progetto analogo a
Salisburgo raccoglie l'invito.
Nel giro di soli sei
mesi (dicasi 6!) viene espletata la gara che assegna il progetto e
individua la location.
I vecchi spazi ingombri
di container abbandonati sulle rive del Nervion, con la grande
falegnameria navale vuota, saranno il luogo del futuro museo, siamo
nel 1991.
Vince la competizione
Frank Gary, prescelto soprattutto per la portata iconica della sua
idea, particolarmente promettente per raggiungere gli scopi di
attrattività che sono nelle intenzioni delle istituzioni regionali:
una visione politica quasi impensabile da noi.
Il risultato darà loro
ragione: il museo è talmente attraente e originale in sé, che vale
un viaggio solo per vederlo, in totale indipendenza dalle opere che
può contenere.
Oltre questo, la sua
presenza e la straordinaria eco che ottiene, innescano una catena di
recuperi urbanistici del braccio di mare che penetra nell'estuario
del Nervion.
In pochi anni attorno al
museo nascono una serie di altri edifici notevoli, tutti firmati da
architetti di grande livello come Arata Isozaki, Norman Foster,
Rafael Moneo, Santiago Calatrava, Zaha Adid e Cesar Pelli i quali,
grazie alla determinazione delle istituzioni basche possono dare alla
luce le loro creature.
La modernizzazione di
Bilbao è inarrestabile, nascono la Biblioteca di Deusto di Moneo, la
nuova Metropolitana di Foster, l'aeroporto e il ponte Zubi Zuri di
Calatrava, le torri Isozaki, l'assessorato alla sanità, l'Hotel di
Zagorreta ecc...a questo va aggiunta l?edilizia residenziale che
ripopola tutta la zona. Oggi la maggior parte degli abitanti di
Bilbao è occupata nel terziario nei servizi e nel turismo, in una
piccola metropoli estremamente moderna e vivace. Un polo europeo di
sviluppo di prima grandezza invece che un suburbio di
sottoproletariato abbandonato.
Terza parte:Ho
un'idea! Essendo nata a pochi
passi dalle zone terremotate dell'Emilia, lo stupore per il livello
di distruttività del sisma in quella zona, fino a ieri considerata
scarsamente sismica (secondo paramentri misteriosi quanto
evidentemente sbagliati) è grande, ed è accompagnato dal ricordo
doloroso di quelle piccole fortezze perlopiù rinascimentali di
mattoni rossi, spesso sconosciute ai più, che tanto significano per
l'identità storica di quei paesini spersi nel deserto sterminato
della bassa, intorno al Panaro e al grande Po. Una identità che è
nei fatti in larga parte perduta, irrecuperabile.
Conosco
però la mia gente, e so quanta intraprendenza e capacità di
anticipare il cambiamento, scorra nel sangue emiliano. Non
è solo questione di adattamento, ma proprio di energia per cavalcare
la vita, e istinto nel saper vedere ovunque opportunità.
Non
si può annichilire una popolazione sopravvissuta alla furia del Po e
capace di creare un tessuto da 2% del pil a partire da anguille e
zanzare...nemmeno il terremoto ci riuscirà.
C'è da chiedersi , con
istituzioni locali come quelle Emiliane (nonostante l'ineluttabile
degrado, ancora presentabili) se non sia ipotizzabile la rinascita
del triangolo geo-culturale Modena, Ferrara, Mantova.
Piagato dal terremoto e
disperatamente in difficoltà nel recupero del suo tessuto
industriale tradizionale come del patrimonio degli edifici
rinascimentali, potrebbe, attraverso un colpo di genio analogo a
quello qui descritto, innescare un processo di modernizzazione, e un
cambio di passo nel progetto politico dell'intero paese.
Un progetto che guardi al
rilancio dell'eccellenza Italiana attraverso cultura e qualità,
anziché rincorrere il modello cinese di profitto, filosoficamente
basato sulla quantità (e la schiavitù).
Togliere ai
Marchionne, grandi e piccini, il diritto di veto sul futuro di
generazioni allo stremo, e ridare alla politica il ruolo di
progettare il futuro attraverso una visione integrata di bellezza,
diritti e bene comune, una politica che non ci faccia rimpiangere gli
Este e i Gonzaga.
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